Lidia Baratta
Riace, diventato simbolo dell'accoglienza dei rifugiati, potrebbe diventare una nuova Rosarno. E insieme al paese della Locride, anche i comuni di Caulonia e Acquaformosa rischiano disordini. Il motivo? Da un anno mancano i fondi per il sostentamento dei profughi, che ora non hanno più cibo nè elettricità nelle loro case. Per questo, il sindaco di Riace e quello di Acquaformosa, insieme a un operatore sociale di Caulonia, da mercoledì 18 luglio sono in sciopero della fame. 24 luglio 2012 - 12:14
Sul cartello di ingresso nella cittadina si legge: «Riace, paese dell’accoglienza». Ma il piccolo borgo della Locride (in provincia di Reggio Calabria), diventato il simbolo dell’integrazione di quegli immigrati respinti in altre città d’Italia, potrebbe trasformarsi presto in una nuova Rosarno. E con Riace, a rischiare disordini sono anche i comuni di Caulonia e Acquaformosa, che da più di un anno non ricevono i contributi per la gestione dei progetti con i rifugiati provenienti da Libia, Siria, Nigeria e altri Paesi in guerra. Non un euro. Da luglio 2011. E anche i commercianti della zona, che finora hanno fatto credito per garantire cibo e vestiti ai richiedenti asilo, non sono più disposti a farlo. Così, per evitare la rivolta degli immigrati, alcuni dei quali ridotti ormai senza cibo né elettricità nelle case, Domenico Lucano, sindaco di Riace, Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa, e Giovanni Maiolo, operatore sociale della cooperativa che si occupa dei migranti a Caulonia, da mercoledì 18 luglio hanno dichiarato lo sciopero della fame. «E anche se cominciamo a non sentirci bene», dice Maiolo al suo sesto giorno senza cibo, «non smetteremo finché non vedremo questi soldi».
Ma che fine hanno fatto i fondi destinati ai profughi e ai richiedenti asilo? I soldi mancanti, a differenza di quanto avviene per i progetti di accoglienza Sprar (Servizi per richiedenti asilo e beneficiari di protezione) gestiti dall’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), sono quelli del progetto Emergenza Nord Africa, gestito dalla Protezione civile e avviato il 7 aprile 2011 con decreto del Consiglio dei ministri per far fronte ai barconi provenienti dalla Libia che affollavano le coste di Lampedusa. Da Roma, i soldi sarebbero arrivati, assicurano dal ministero. L’ok dello stanziamento dei fondi per la protezione civile, però, deve arrivare dalla Corte dei conti. Ed è qui che nasce il problema. «Ci hanno detto che i fondi sono stati erogati», spiega Giovanni Maiolo, «ma non è stato chiesto il parere preventivo della Corte dei conti, per cui ora esiste un conflitto tra la protezione civile calabrese e la Corte dei conti». Lungaggini burocratiche, insomma, che hanno ridotto i rifugiati alla fame e gli operatori sociali senza uno stipendio ormai da molti mesi.
«Qui aspettiamo ancora 125 mila euro», spiega Giuseppe Capparelli, impiegato del Comune di Acquaformosa, in provincia di Cosenza. «Lo scorso anno abbiamo ricevuto solo una mensilità, per il resto ci siamo arrangiati chiedendo prestiti alle banche per garantire vitto e alloggio agli immigrati e cercare di pagare gli stipendi degli operatori, che ormai da un po’ si mesi sono costretti a lavorare come volontari». Nel piccolo centro arbëreshë (albanese) ai confini del parco nazionale del Pollino, nel 2011 sono stati accolti 15 rifugiati provenienti da Nigeria, Siria e Benin. «C’è una associazione che si occupa di loro, ci sono i mediatori culturali», racconta Capparelli, «e in più abbiamo avviato dei percorsi formativi per favorire l'ingresso nel mondo del lavoro. Uno di loro, ad esempio, sta facendo il tirocinio in un ristorante del paese». In questo piccolo centro di 1.180 anime, con il lavoro che non c'è e giovani che emigrano per studiare o lavorare nelle città del Nord, i rifugiati hanno rappresentato la cura contro lo spopolamento. Occupando le case vuote e riempiendo piazze e bar. E i figli degli extracomunitari, frequentando le scuole locali, ne hanno evitato la chiusura.
Il problema dell’erogazione dei fondi, sostiene Maiolo, nasce dal «trasferimento della gestione dei rifugiati dalle Politiche sociali alla Protezione civile dopo l’emergenza a Lampedusa dell’anno scorso». Cosa che ha fatto raddoppiare la spesa giornaliera per migrante da 23 a 46 euro. «Con la costruzione di posti come la tendopoli di Manduria o il centro accoglienza di Mineo», aggiunge Maiolo, «che costano fino a 70-100 euro al giorno per rifugiato, dove gli immigrati mangiano, bevono e hanno un letto dove dormire, ma non sono liberi di uscire». A Caulonia, sulla costa ionica di Reggio Calabria, dove il progetto Emergenza Nord ha permesso di ospitare 50 richiedenti asilo, «gli immigrati invece sono liberi di andare in giro e vivono nelle case del territorio, permettendo non solo una ripresa dell’economia locale ma anche la rinascita del borgo stesso, che rischiava di estinguersi». Qui, continua l'operatore, «con le borse lavoro, l'insegnamento dell'italiano e i progetti di formazione, creiamo le basi perché una volta usciti di qua, i rifugiati possano avere un permesso di soggiorno e un futuro nella società italiana».
Lo stesso modello si ripete a Riace, dove gli immigrati ospitati sono in tutto circa 150, provenienti soprattutto da Ciad, Sierra Leone e Sudan. Vicino al tratto di mare dove nel 1972 erano stati ripescati i famosi bronzi, nel 1998 sbarcò un veliero con a bordo circa 300 curdi dall’Afghanistan e dall’Iraq. «Un segno del destino per la comunità», ha raccontato più volte il sindaco Domenico Lucano, tornato nel borgo sulle pendici della Locride dopo essere emigrato anche lui a Torino per diversi anni. Nel 2000 viene inaugurata la “Città futura”, luogo simbolico dell’incontro tra gli extracomunitari. E così, il piccolo borgo, che negli anni Novanta si stava avviando verso il declino a causa dello spopolamento dovuto all’emigrazione della popolazione locale, rinasce proprio grazie ai profughi. Che occupano le case ormai vuote, trovano posti di lavoro e animano le piazze di un paese dove per strada si vedevano sempre più anziani e sempre meno bambini.
Riace diventa «il paese dell’accoglienza», come è scritto sul cartello di ingresso. Tanto che il regista tedesco Wim Wenders percorre l’Italia intera fino ad arrivare in questo angolo della Calabria, tra la macchia mediterranea e gli ulivi, per girare il suo cortometraggio Il volo e raccontare la riuscita dell’integrazione tra culture di diverse. «Lì ho visto davvero un mondo migliore», raccontò l'autore de Il cielo sopra Berlino.
Questo modello, però, ora rischia di incepparsi per mancanza di denaro. «Finora abbiamo tenuto botta», racconta Giovanni Maiolo, «abbiamo chiesto ai negozianti di farci credito, ma dopo un anno, anche loro giustamente non ne possono più». Sono «piccole botteghe, piccoli commercianti», precisa, «che non navigano nell’oro. Solo la farmacia di Riace ha garantito che farà ancora credito». Per il resto, prosegue, «mancano cibo e vestiti e questo rischia di creare tensioni sociali. I rifugiati cominciano a lamentarsi perché non hanno più luce in casa, non hanno cibo. E chi glielo spiega che dipende tutto dalla Corte dei conti?».
È per questo che Lucano, Maiolo e Manoccio hanno deciso di scegliere una protesta estrema, smettendo di alimentarsi dallo scorso mercoledì. «I progetti di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati di Riace, Caulonia ed Acquaformosa, che testimoniano di come sia possibile accogliere i migranti in modo umano e solidale promuovendo allo stesso tempo sviluppo locale, sono in serio pericolo», hanno scritto in un documento del 18 luglio. Il sottosegretario alla Presidenza della Regione Calabria, con delega alla Protezione civile, Franco Torchia, «ci ha proposto di fare la certificazione del credito», racconta Maiolo. Che significa «indebitarci ancora con le banche per mettere una toppa a questa situazione di emergenza. Così i tempi per l’erogazione dei fondi si allungherebbero. Per questo abbiamo detto no e continueremo lo sciopero della fame finché non arriverà il denaro che aspettiamo da un anno»
Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/rifugiati-riace-sciopero-fame#ixzz21cmXV2GU
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