Wednesday, July 25, 2012

I fondi ci sono, la burocrazia li blocca: e a Riace i rifugiati fanno la fame


Lidia Baratta

Riace, diventato simbolo dell'accoglienza dei rifugiati, potrebbe diventare una nuova Rosarno. E insieme al paese della Locride, anche i comuni di Caulonia e Acquaformosa rischiano disordini. Il motivo? Da un anno mancano i fondi per il sostentamento dei profughi, che ora non hanno più cibo nè elettricità nelle loro case. Per questo, il sindaco di Riace e quello di Acquaformosa, insieme a un operatore sociale di Caulonia, da mercoledì 18 luglio sono in sciopero della fame. 24 luglio 2012 - 12:14
Sul cartello di ingresso nella cittadina si legge: «Riace, paese dell’accoglienza». Ma il piccolo borgo della Locride (in provincia di Reggio Calabria), diventato il simbolo dell’integrazione di quegli immigrati respinti in altre città d’Italia, potrebbe trasformarsi presto in una nuova Rosarno. E con Riace, a rischiare disordini sono anche i comuni di Caulonia e Acquaformosa, che da più di un anno non ricevono i contributi per la gestione dei progetti con i rifugiati provenienti da Libia, Siria, Nigeria e altri Paesi in guerra. Non un euro. Da luglio 2011. E anche i commercianti della zona, che finora hanno fatto credito per garantire cibo e vestiti ai richiedenti asilo, non sono più disposti a farlo. Così, per evitare la rivolta degli immigrati, alcuni dei quali ridotti ormai senza cibo né elettricità nelle case, Domenico Lucano, sindaco di Riace, Giovanni Manoccio, sindaco di Acquaformosa, e Giovanni Maiolo, operatore sociale della cooperativa che si occupa dei migranti a Caulonia, da mercoledì 18 luglio hanno dichiarato lo sciopero della fame. «E anche se cominciamo a non sentirci bene», dice Maiolo al suo sesto giorno senza cibo, «non smetteremo finché non vedremo questi soldi».
Ma che fine hanno fatto i fondi destinati ai profughi e ai richiedenti asilo? I soldi mancanti, a differenza di quanto avviene per i progetti di accoglienza Sprar (Servizi per richiedenti asilo e beneficiari di protezione) gestiti dall’agenzia delle Nazioni unite per i rifugiati (Unhcr), sono quelli del progetto Emergenza Nord Africa, gestito dalla Protezione civile e avviato il 7 aprile 2011 con decreto del Consiglio dei ministri per far fronte ai barconi provenienti dalla Libia che affollavano le coste di Lampedusa. Da Roma, i soldi sarebbero arrivati, assicurano dal ministero. L’ok dello stanziamento dei fondi per la protezione civile, però, deve arrivare dalla Corte dei conti. Ed è qui che nasce il problema. «Ci hanno detto che i fondi sono stati erogati», spiega Giovanni Maiolo, «ma non è stato chiesto il parere preventivo della Corte dei conti, per cui ora esiste un conflitto tra la protezione civile calabrese e la Corte dei conti». Lungaggini burocratiche, insomma, che hanno ridotto i rifugiati alla fame e gli operatori sociali senza uno stipendio ormai da molti mesi. 
«Qui aspettiamo ancora 125 mila euro», spiega Giuseppe Capparelli, impiegato del Comune di Acquaformosa, in provincia di Cosenza. «Lo scorso anno abbiamo ricevuto solo una mensilità, per il resto ci siamo arrangiati chiedendo prestiti alle banche per garantire vitto e alloggio agli immigrati e cercare di pagare gli stipendi degli operatori, che ormai da un po’ si mesi sono costretti a lavorare come volontari». Nel piccolo centro arbëreshë (albanese) ai confini del parco nazionale del Pollino, nel 2011 sono stati accolti 15 rifugiati provenienti da Nigeria, Siria e Benin. «C’è una associazione che si occupa di loro, ci sono i mediatori culturali», racconta Capparelli, «e in più abbiamo avviato dei percorsi formativi per favorire l'ingresso nel mondo del lavoro. Uno di loro, ad esempio, sta facendo il tirocinio in un ristorante del paese». In questo piccolo centro di 1.180 anime, con il lavoro che non c'è e giovani che emigrano per studiare o lavorare nelle città del Nord, i rifugiati hanno rappresentato la cura contro lo spopolamento. Occupando le case vuote e riempiendo piazze e bar. E i figli degli extracomunitari, frequentando le scuole locali, ne hanno evitato la chiusura. 
Il problema dell’erogazione dei fondi, sostiene Maiolo, nasce dal «trasferimento della gestione dei rifugiati dalle Politiche sociali alla Protezione civile dopo l’emergenza a Lampedusa dell’anno scorso». Cosa che ha fatto raddoppiare la spesa giornaliera per migrante da 23 a 46 euro. «Con la costruzione di posti come la tendopoli di Manduria o il centro accoglienza di Mineo», aggiunge Maiolo, «che costano fino a 70-100 euro al giorno per rifugiato, dove gli immigrati mangiano, bevono e hanno un letto dove dormire, ma non sono liberi di uscire». A Caulonia, sulla costa ionica di Reggio Calabria, dove il progetto Emergenza Nord ha permesso di ospitare 50 richiedenti asilo, «gli immigrati invece sono liberi di andare in giro e vivono nelle case del territorio, permettendo non solo una ripresa dell’economia locale ma anche la rinascita del borgo stesso, che rischiava di estinguersi». Qui, continua l'operatore, «con le borse lavoro, l'insegnamento dell'italiano e i progetti di formazione, creiamo le basi perché una volta usciti di qua, i rifugiati possano avere un permesso di soggiorno e un futuro nella società italiana». 
Lo stesso modello si ripete a Riace, dove gli immigrati ospitati sono in tutto circa 150, provenienti soprattutto da Ciad, Sierra Leone e Sudan. Vicino al tratto di mare dove nel 1972 erano stati ripescati i famosi bronzi, nel 1998 sbarcò un veliero con a bordo circa 300 curdi dall’Afghanistan e dall’Iraq. «Un segno del destino per la comunità», ha raccontato più volte il sindaco Domenico Lucano, tornato nel borgo sulle pendici della Locride dopo essere emigrato anche lui a Torino per diversi anni. Nel 2000 viene inaugurata la “Città futura”, luogo simbolico dell’incontro tra gli extracomunitari. E così, il piccolo borgo, che negli anni Novanta si stava avviando verso il declino a causa dello spopolamento dovuto all’emigrazione della popolazione locale, rinasce proprio grazie ai profughi. Che occupano le case ormai vuote, trovano posti di lavoro e animano le piazze di un paese dove per strada si vedevano sempre più anziani e sempre meno bambini. 
Riace diventa «il paese dell’accoglienza», come è scritto sul cartello di ingresso. Tanto che il regista tedesco Wim Wenders percorre l’Italia intera fino ad arrivare in questo angolo della Calabria, tra la macchia mediterranea e gli ulivi, per girare il suo cortometraggio Il volo e raccontare la riuscita dell’integrazione tra culture di diverse. «Lì ho visto davvero un mondo migliore», raccontò l'autore de Il cielo sopra Berlino.
Questo modello, però, ora rischia di incepparsi per mancanza di denaro. «Finora abbiamo tenuto botta», racconta Giovanni Maiolo, «abbiamo chiesto ai negozianti di farci credito, ma dopo un anno, anche loro giustamente non ne possono più». Sono «piccole botteghe, piccoli commercianti», precisa, «che non navigano nell’oro. Solo la farmacia di Riace ha garantito che farà ancora credito». Per il resto, prosegue, «mancano cibo e vestiti e questo rischia di creare tensioni sociali. I rifugiati cominciano a lamentarsi perché non hanno più luce in casa, non hanno cibo. E chi glielo spiega che dipende tutto dalla Corte dei conti?». 
È per questo che Lucano, Maiolo e Manoccio hanno deciso di scegliere una protesta estrema, smettendo di alimentarsi dallo scorso mercoledì. «I progetti di accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati di Riace, Caulonia ed Acquaformosa, che testimoniano di come sia possibile accogliere i migranti in modo umano e solidale promuovendo allo stesso tempo sviluppo locale, sono in serio pericolo», hanno scritto in un documento del 18 luglio. Il sottosegretario alla Presidenza della Regione Calabria, con delega alla Protezione civile, Franco Torchia, «ci ha proposto di fare la certificazione del credito», racconta Maiolo. Che significa «indebitarci ancora con le banche per mettere una toppa a questa situazione di emergenza. Così i tempi per l’erogazione dei fondi si allungherebbero. Per questo abbiamo detto no e continueremo lo sciopero della fame finché non arriverà il denaro che aspettiamo da un anno»


Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/rifugiati-riace-sciopero-fame#ixzz21cmXV2GU

Monday, July 23, 2012

'Hotel Africa', 800 rifugiati ammassati in condizioni disumane


ROMA - Detenuti senza sbarre. Si sentono così gli 800 rifugiati politici che vivono in un palazzo alle porte di Roma, un tempo sede della facoltà di Lettere dell'Università di Tor Vergata.
A giugno, quando nella capitale si facevano i conti con l'ondata di calore battezzata Scipione, ai rifugiati è stata staccata l'acqua. Nell'Hotel Africa, come è conosciuto questo palazzo tra i rifugiati, è una cosa che capita spesso e allora le condizioni di vita diventano ancora più difficili: ci si deve alzare di notte per fare una doccia, si esce all'alba per cercare lavoro o da mangiare.
Gli abitanti di questo palazzo vengono soprattutto dal Corno d'Africa, scappano dalle guerre; molti sono superstiti del conflitto in Darfur, come Bahar Abdalla, commerciante prima della fuga, o Sherif Abdala Ibrahim, che in quella regione ha lasciato la moglie e la madre. In tutto l'edificio, nonostante alcune episodiche tensioni, c'è un ordine dettato dai membri del comitato locale, otto rappresentanti dei quattro Paesi (Eritrea, Etiopia, Sudan e Somalia) più presenti. E' con loro che si sono tenute due riunioni prima di riuscire a ricevere il permesso per entrare con una telecamera e documentarne la miseria.
Una volta prese le scale, buie, la puzza è ovunque, permea i corridoi con i vetri delle finestre rotti e le stanze senza porte dove ci sono brandine sistemate alla meglio, ma qualcuno non resiste e dorme in una terrazza. C'è un solo bagno al secondo piano, i vani per la doccia sono coperti da stracci, penzola una lampadina, se ne servono in centinaia. I rifugiati hanno aperto le porte al Commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, che ha chiesto all'Italia di porre fine a questa situazione vergognosa.
"In Africa c'è la guerra - dice Bahar Abdalla - qui c'è una guerra fredda". La loro battaglia è quella per il ricongiungimento familiare, concesso a chi ha lo status di rifugiato politico ma difficile da ottenere in realtà, o per l'equiparazione dei titoli di studio. Difficile anche ottenere la residenza anche per coloro che vivono in Italia da anni: su questo fronte (ma non solo) è attiva l'unica onlus che si prende cura dei rifugiati dell'Hotel Africa, l'Associazione Cittadini del Mondo, dove lavora Donatella D'Angelo, medico specializzato in immunologia che ogni giovedì fa visite gratis. "Sette anni fa, quando è stato occupato il palazzo - dice D'Angelo - venivamo per le visite mediche, ora oltre a consulenze mi chiedono di tutto perché queste persone non hanno nulla. Abbiamo bisogno di volontari. Stiamo lottando per fare avere la residenza a questi giovani".
Tra gli 800 rifugiati c'è chi avrebbe bisogno di cure psichiatriche, come un ragazzo che vaga nel palazzo con lo sguardo perso nel vuoto: è scappato, come molti, dalla guerra e in tanti indossavano una divisa. C'é ancora chi coltiva la speranza, come Muna Awil, 24 anni, somala che sogna di diventare attrice e ha fatto anche provini come figurante, ma "non c'é spazio per me né nel mondo dello spettacolo, né in quello reale". L'associazione onlus ha messo in piedi da tre anni una biblioteca interculturale in una scuola nel quartiere del Quadraro, per ora hanno 4000 mila libri ma ne servono altri, perché "queste persone - aggiunge Paolo Guerra, responsabile della biblioteca - non possono neanche leggere una favola ai loro figli".
Fonte di Notizia:Qua

Saturday, July 21, 2012

Una piccola parte della Somalia non vedete su TV e sui Giornali

                                               
                                                   
                                               
                                                     
                                                     
                                                       
                                                   









Friday, July 20, 2012

Rifugiati, lo Stato non paga da gennaio: «Pronti alla protesta»


SAN MARTINO. Un debito di quasi un milione di euro. È quello che lo Stato ha con gli alberghi e le strutture che ospitano da oltre un anno i richiedenti protezione internazionale fuggiti attraverso il Mediterraneo, su quei barconi che spesso lasciano le loro vittime in mare. «Con Camera di commercio e Prefettura di Pavia stiamo cercando di trovare un modo perché le banche anticipino i soldi dovuti dallo stato alle strutture che rischiano grosso, come quando sono gli enti locali a pagare in ritardo», spiega il sindaco di San Martino Vittorio Barella.
Ma la burocrazia ha i suoi tempi. «Dovrebbero pagarci a 60 giorni, da contratto – sbotta Carlo Gatti, titolare del Petit hotel Giannino di San Martino – Noi stiamo anticipando i soldi per il mantenimento dei rifugiati allo Stato, che non ci paga: loro, però, mangiano tutti i giorni, ritirano il buono da 2,50 euro ogni giorno, hanno bisogno di prodotti per l’igiene. Se non ci pagano, noi e i sindaci, non solo della provincia di Pavia, siamo pronti alla protesta: cosa accadrebbe se li riportassimo tutti davanti alle questure?». Lo Stato deve ancora pagare per marzo, aprile, maggio, giugno le spese per il mantenimento, circa 42 euro al giorno per ognuno di loro. E gli albergatori hanno iniziato a bussare agli uffici della prefettura di Pavia, anche se a pagare, in realtà, è quella di Milano.
Il Petit hotel Giannino ospita 31 profughi da aprile dell’anno scorso e dallo Stato, facendo due rapidi calcoli, deve ancora ricevere quasi duecentomila euro. Poi ci sono lo Zenit di Voghera, il Paradise a Villanterio, la casa famiglia di Cecima, l’Italia a Gropello Cairoli, La Castellana a Castello d’Agogna, il Bel sit a Mortara, la Coop Faber a Palestro, la casa del Giovane, Villa Meardi a Voghera, Villa Ticinum, l’Alò alò a Casteggio. Mentre a Robbio e Santa Maria della Versa, si dice anche a causa dei continui ritardi nei pagamenti, gli alberghi hanno cambiato gestione, e i rifugiati non li ospitano più.
I profughi della guerra in Libia attendono ancora di sapere quale sarà il loro destino, c’è chi ha visto la pratica rigettata e ha fatto ricorso, chi invece ha ottenuto lo status di rifugiato e se n’è andato dalle strutture. La Protezione civile li hanno iscritti alle liste di disoccupazione, mancano solo quelli alloggiati a Palestro, ma non c’è ancora un progetto per l’inserimento lavorativo, «e per chi a malapena conosce l’italiano – fanno notare gli albergatori e i volontari delle associazioni – È difficile avere qualche chances». Allo Zenit di Voghera i titolari dell’albergo hanno sondato le disponibilità di alcune imprese della zona, sembra che qualcosa andrà in porto, ma sono iniziative isolate, lasciate alla volontà di chi vive con loro da oltre un anno.
Fonte di Notizie :Qua

Thursday, July 19, 2012

Somali International Studies Association (SSIA) Congress 2012


Immaginare il futuro: Basarsi sul passato - Utilizzando i punti di forza della società somala e Storia.


Il 11 SSIA congresso sarà ospitato dal Centro Nansen per la Pace e il Dialogo , Lillehammer, Norvegia, 11-13 ottobre 2012, in collaborazione conIFTIIN , somalo-norvegese Knowledge Centre. Conoscere la varietà di competenza del congresso attira il congresso esaminerà la ricca cultura della Somalia e la storia, i suoi valori e come questi fattori plasmare il futuro della nazione somala.  Il titolo del 11 ° SSIA Congresso è Immaginare il futuro: Basarsi sul passato - Utilizzando i punti di forza della società somala e Storia. Numerose conferenze di pace e di riconciliazione, laboratori e incontri politici hanno avuto luogo negli ultimi decenni, in gran parte guidati da non-somali, e con le migliori intenzioni. Tuttavia, le intenzioni espresse di questi incontri non si sono concretizzati sul campo. Crediamo che la chiave per un futuro di successo si trova con gli stessi somali e di conseguenza trovare una soluzione al conflitto in Somalia deve risuonare con la nazione somala e valorizzare l'esperienza somala.  La 11 ° Congresso della Somalia Studies Association (SSIA) si concentrerà su molti gli aspetti di funzionamento della società somala. Contrariamente alla credenza popolare, molte comunità locali in Somalia funzionare bene a livello di base e dei loro abitanti godono di una relativa stabilità. Secondo un recente International Crisis Group (ICG) relazione, che condanna l'attuale governo a Mogadiscio senza mezzi termini, per corruzione e l'incapacità di portare a risultati positivi, c'è un altro lato Somalia: Eppure, la situazione non è brutta come può sembrare. Alcune parti della Somalia, in particolare del Somaliland e del Puntland, nel nord, sono relativamente stabili, e come la sfortunata Unione delle Corti Islamiche hanno dimostrato nel 2006, è possibile ristabilire rapidamente la pace e la stabilità in Somalia centrale e meridionale, se le condizioni giuste esistono. Contrariamente a quanto spesso si suppone, c'è poco anarchia nel paese. Enti locali gestiscono la maggior parte delle aree e mantenere un minimo di ordine pubblico.Somali e le agenzie umanitarie e delle ONG sul terreno sapere chi è in carica e quali sono le regole e andare avanti con il loro lavoro (ICG 2011: ii). Mettere tradizioni somali e gli interessi del centro del dibattito è particolarmente importante ora che la Somalia è fronte a un bivio - TFG il mandato sta per scadere, i gruppi radicali continuano a terrorizzare la popolazione civile e il Corno d'Africa sta vivendo una grave siccità con effetti devastanti per diverse comunità della regione. Tuttavia, nonostante le prospettive cupe, la guerra e la siccità non sono fenomeni nuovi al popolo somalo. Ad esempio, la siccità che ha colpito la Somalia nel 1974-75 ha visto molte soluzioni ingegnose per vincere la sfida dagli sforzi combinati di tradizionali, le autorità locali, nazionali ed internazionali. Di volta in volta, i meccanismi locali e tradizionali si sono dimostrate - e ancora provare - di essere resistente e in grado di affrontare i problemi che si presentano. Valori locali e tradizionali restano cruciali per la comprensione della realtà somala, ma questi fattori può essere modellato nelle forze di pace allo stato attuale di frazionamento e di estremismo?  La forza dei valori tradizionali e locali è essenziale per comprendere perché un certo numero di locali e regionali comunità in tutta la Somalia sono funzionanti e stabili.Inoltre, la Somalia è uno dei paesi più prosperi dell'Africa per decenni e la mancanza di corrente per portare la pace nel Corno potrebbe indicare che stiamo cercando le soluzioni indicate nei posti sbagliati. Per la comunità internazionale ad essere in grado di agire positivamente verso la Somalia , comprendere la cultura somala e le cause profonde dei conflitti reali somali sono essenziali. Secondo la nostra comprensione, i processi di pace la maggior parte somali non hanno legittimità agli occhi degli elettori che sostengono di rappresentare. L'approccio top-down che viene utilizzato in tutti i processi di pace nazionali somale ha contribuito al fallimento. La maggior parte di essi sono stati tenuti al di fuori del paese e hanno cercato soluzioni rapide piuttosto che rispondere al conflitto reale. Vi è mancanza di continuità e coerenza. E 'importante ridurre l'influenza di attori esterni, e lasciare il tempo sufficiente per discutere questioni fondamentali relative ai somali. Pertanto vi invitiamo a prendere la nostra sfida e indirizzo per i problemi che abbiamo messo dinanzi al programma . Invitiamo il 11 Congresso della Associazione Internazionale Studi somala guardare non ai fallimenti, ma i punti di forza della nazione somala.



Sito:http://www.ssiaconference.com/ 







Palazzo Cernezzi ha deciso: Ramadan, si prega in via Cuzzi


Como, 18 Luglio 2012 - Inizia domani il Ramadan e per un mese la comunità islamica avrà a disposizione lo spazio della palestra di via Cuzzi, la cui destinazione è stata decisa dal sindaco, Mario Lucini, per offrire un luogo più degno di preghiera rispetto al tendone che fino all'anno scorso era stato messo a disposizione dietro all'autosilo della Valmulini.
“La comunità islamica ha avanzato a fine giugno una richiesta di utilizzo di uno spazio pubblico per il Ramadan. E’ stata, quindi, verificata la possibilità di poter concedere questo spazio e la scelta, effettuata dai tecnici, è caduta sulla palestra della scuola di via Cuzzi-  spiega il sindaco - Si tratta di un edificio staccato dalla scuola, che risponde ai requisiti di sicurezza necessari e il cui utilizzo è stato definito d’intesa con il dirigente scolastico. Con Prefettura e Questura, invece, sono stati valutati i controlli che verranno effettuati dalle forze dell’ordine".
L’associazione ha sottoscritto un atto d’obbligo con la quale si è impegnata a rispettare una serie di condizioni, tra cui il versamento di una cauzione di 7500 euro e il pagamento di 1900 euro per l’utilizzo della palestra. La durata della concessione è dal 19 luglio al 22 agosto.
“Non è la prima volta - prosegue il primo cittadino - che l’amministrazione concede uno spazio pubblico, era già successo con il corpo a shed della Ticosa e negli ultimi anni il Comune concedeva un terreno vicino all’autosilo Valmulini dove veniva posizionato un tendone. La decisione che abbiamo preso è per una struttura più adeguata”. La durata della concessione, rilasciata dal settore Patrimonio, è stata fissata dal 19 luglio al 22 agosto, l’orario di utilizzo sarà compreso tra le 18 e le 24 con la sola eccezione delle giornate di venerdì per le quali l’apertura avverrà alle 12 e la chiusura alle 24 e per il giorno di fine Ramadan durante il quale l’apertura sarà dalle 8 (il giorno di fine Ramadan cadrà tra il 20 e il 21 agosto) alle 24.
La struttura non potrà essere utilizzata da più di 200 persone ed esclusivamente per l’esercizio del rito della preghiera. Non sarà ammessa l’introduzione di sedie e tavoli, di apparecchiature elettriche o per la produzione di calore, non si potranno prepare di pasti e non si potrà fumare. L’ingresso avverrà dal cancello di via Durini e per la sosta dovrà essere utilizzato o il parcheggio dell’ex Trevitex o il parcheggio nelle vicinanze del cimitero di Rebbio.
Non è una scelta a tempo indeterminato - conclude Lucini - ma legata al periodo in cui quest’anno si svolge il Ramadan (il mese di Ramadan di anno in anno cade in un momento differente dell'anno solare e può ricorrere in una stagione diversa, ndr). Per quest’anno è stata concessa la palestra, per il futuro di volta in volta si dovrà trovare una soluzione idonea”.
 

Wednesday, July 18, 2012

Rifugiati: Terzi, Italia rispetta accordi internazionali

 Tutti gli accordi tra l'Italia e gli altri paesi in materia di immigrazione rispettano gli accordi internazionali. Lo ha chiarito il ministro degli Esteri Giulio Terzi, commentando una sentenza del tribunale di Stoccarda in cui si accusa l'Italia di non rispettare i diritti umani dei richiedenti asilo. ''In tutte le commissioni in Italia nelle quali si valutano le pratiche di asilo vi è una presenza, un collegamento ed un raccordo costante con l'Unhcr'', ha spiegato Terzi. titolare della Farnesina ha inoltre ricordato che ''tutti gli strumenti pattizi ad iniziare da quello negoziato con la Libia sin da gennaio contengono il riferimento al rispetto degli accordi internazionali a tutto campo. Quindi credo che spesso le cose che si leggono e si vedono meritino di essere meglio chiarite, perché l'Italia è uno dei paesi più virtuosi in questo settore''

Fonte: http://ansamed.ansa.it

 Germania: ‘Italia disumana con i profughi’


IN ITALIA i profughi sono trattati in maniera inaccettabile. Lo dice il tribunale amministrativo di Stoccarda, che nei giorni scorsi ha accettato il ricorso di una famiglia palestinese. ENTRATI in Europa attraverso il nostro Paese e arrivati in Germania, due coniugi con tre bambini provenienti dalla Siria dovevano essere rispediti in Italia, secondo le leggi che regolano il diritto di asilo. Ma a causa delle «sistematiche manchevolezze» del nostro sistema di accoglienza e del modo in cui viene applicato il diritto d’ asilo, i cinque erano a rischio di «trattamento inumano o mortificante». Perciò, niente rinvio: sarà la Repubblica federale a valutare la richiesta d’ asilo della famiglia. Non è la prima volta che i tribunali amministrativi fanno questa valutazione, ha detto ai giornalisti la portavoce della corte di Stoccarda. Sentenze simili sono state emesse a Lüneburg, Friburgo, Karlsruhe, Düsseldorf, Augusta, Gelsenkirchen e Magdeburgo. A convincere i giudici del Baden-Württemberg è stato il racconto dei cinque profughi: l’ Italia li aveva accolti in un centro di accoglienza, chiusi in una stanza assieme a un’ altra famiglia, senza letti né coperte, con un pasto al giorno e nient’ altro. Dopo una sommaria raccolta di informazioni, le autorità italiane gli avrebbero chiesto di lasciare il paese. Secondo i giudici, la grande maggioranza dei richiedenti asilo in Italia non trova protezione o riparo, né accesso sicuro ad acqua, cibo ed elettricità, per non parlare delle condizioni sanitarie. Insomma, in tema di richiedenti asilo l’ Italia non è in grado di adempiere agli impegni presi: secondo la sentenza, «le strutture di accoglienza per i profughi sono totalmente sovraccariche di lavoro». Questa condizione non migliorerà in breve, sostiene il tribunale di Stoccarda, e dopo la “primavera araba” si può pensare piuttosto a un peggioramento. In Italia la famiglia palestinese sarebbe spinta a condurre «una vita sotto il livello minimo di sussistenza» e «a rischio di restare senza tetto». Sono valutazioni pesantissime: l’ ufficio federale per le Migrazioni ha cercato di alleviarle sottolineando con Der Spiegel che «sia pure con qualche mancanza, l’ Italia adempie gli standard europei sul diritto di asilo». Ma i lettori hanno riempito il sito web del settimanale con commenti sdegnati. C’ è chi chiede che il conto finale delle spese per i profughi sia spedito al governo di Roma, chi lascerebbe «gli italiani sotto la pioggia», chi accusa il nostro Paese di «buttare fuori bordo il diritto internazionale» e chi riconosce che la Germania «usa il sud Europa come zona cuscinetto» per non affrontare il problema migrazioni. Laura Boldrini, portavoce dell’ Alto commissariato Onu per i rifugiati, taglia corto: «La sentenza di Stoccarda non è la prima in questo senso. Anche se, a differenza di quello che accade per la Grecia, l’ Alto commissariato non chiede agli stati di evitare di rimandare in Italia chi chiede asilo, ma di valutare caso per caso, nell’ interesse dei rifugiati». 

La rinascita Mogadiscio

Fino a poche settimane fa, ai passeggeri che atterravano all'Aeroporto Aden Abdulle di Mogadiscio veniva dato un foglio dove si chiedeva di indicare nome, indirizzo e calibro dell'arma. Oggi le cose sono cambiate: ai visitatori viene consegnato un modulo giallo in cui non si fa menzione di armi ma si può indicare, tra le ragioni della propria visita, una nuova categoria: la vacanza. 

Nelle strade di Mogadiscio, poi, i colpi battenti che si sentono al mattino non sono più quelli dei mitragliatori: ma suoni prodotti dagli strumenti di lavoro. Si costruisce ovunque: ospedali, case, negozi, alberghi e persino bar (dove invece della birra si servono succhi di frutta). Al Teatro Nazionale, un tempo usato come deposito d'armi, i cantanti somali hanno appena dato il loro primo concerto in vent'anni. Insomma, la capitale somala ridotta in macerie da 21 anni di guerra civile, sta vivendo un'epoca di grandi trasformazioni. I ribelli del gruppo al-Shabab che un tempo controllavano il Paese, si sono ritirati dalla città ad agosto. 

Ora la capitale è in mano a una sorta di superpotenza, l'African Union, che la difendono con 10 mila soldati (diventeranno 17 mila), mentre carri armati, artiglieria e veicoli corazzati pattugliano le strade; così la città sta attraversando il più lungo periodo di pace dal 1991: otto mesi. "È una rinascita" dice Omar Osman, ingegnere informatico che ha lavorato ad Atlanta per le linee aeree Delta e si è appena trasferito qui. "Questa è la Somalia di ultima 
generazione". Naturalmente c'è molta strada da fare. 

Poco tempo fa un attentatore suicida si è fatto esplodere all'ingresso del palazzo presidenziale; un colpo di mortaio ha colpito un campo di rifugiati uccidendo sei persone. Qualche signore della guerra tenta di resistere e in alcuni quartieri della città i miliziani rialzano la testa. Ma la gente sente la nuova atmosfera: e vuole approfittarne. Negli ultimi sei mesi 300 mila persone hanno fatto ritorno in città, cominciando a eliminae le macerie e ricostruire le case crivellate dai proiettili. 

Il boom economico, alimentato dall'afflusso di milioni di dollari in gran parte portati da chi rientra in patria, crea nuovi posti di lavoro che assorbono i miliziani desiderosi di uscire dalla spirale della violenza. Considerata l'importanza che Mogadiscio riveste nel Paese, questo è un'enorme occasione. E sebbene la Somalia si sia autodistrutta numerose volte, Augustine Mahiga, responsabile per la Somalia dell'ufficio politico delle Nazioni Unite, crede - assieme a molti altri - che questa volta è diverso. La Somalia è a un punto di svolta. "Per la prima volta dal 1991, Mogadiscio è sotto il controllo di un'unica autorità " spiega Mahiga. "Un fatto senza precedenti". In città aleggia un insolito sentimentoche unisce persone diverse: la speranza.


IL VENDITORE DI PESCE 
Il locale è pieno, le mosche sciamano ovunque e il pavimento è ricoperto di sangue. "Quattro milioni!" grida Mohammed Sheik Nur Taatey, agitando con forza quattro dita tozze. "Mi devi quattro milioni. Non uno scellino di meno". Siamo al mercato del pesce di Mogadiscio, un edificio lungo e stretto situato in riva al mare, dove ogni giorno si vendono migliaia di dollari di pesce. Taatey, 38 anni, vende all'ingrosso. Negli ultimi mesi i suoi introiti sono lievitati. L'ondata di residenti tornati a Mogadiscio e l'apertura di nuovi ristoranti ha fatto salire il prezzo del pesce, passato dai 50 centesimi alla libbra ai 2 dollari di oggi. 

La pesca è ricca, un segno positivo per la rinascente industria ittica somala che richiama anche l'attenzione degli investitori asiatici. "È il periodo migliore della mia vita" dice il pescivendolo. Il guadagno medio è intorno ai 27 dollari, e lui, che dopo la caduta del governo nel 1991 ha assistito alla distruzione di Mogadiscio da parte di miliziani appartenenti a clan molto più forti del suo, finalmente respira. All'epoca uscire era così pericoloso che Taatey non poteva vendere il pesce e la sua famiglia si nutriva di farina d'avena. Ma oggi Taatey mette a tavola banane, patate, frittelle e minestra. "Sono fortunato" dice con un sorriso, seduto in mezzo a quella che si direbbe la classe di una scuola. "Ho 14 figli. C'è chi non ne ha neanche uno".

IL BANCHIERE
Mentre la sua città affondava nel caos, Liban Egal, fedele al leggendario spirito imprenditoriale dei somali, gestiva un impero di friggitorie di pollo a Baltimora. I commercianti somali famosi per la loro intraprendenza, sono i primi, all'estero, ad aprire negozi in quartieri malfamati o villaggi remoti. Egal, emigrato negli Usa alla fine degli anni 80, non ha smentito questa fama e ora, arricchitosi coi polli, si appresta ad aprire la First Somali Bank, prima banca commerciale del Paese. 

E ha in programma di investire anche in servizi internet, pannelli solari e industria ittica. È convinto che sia il momento giusto, né troppo presto né troppo tardi, per investire in Somalia: il livello di sicurezza è aumentato e le tasse sono basse. Certo, lo scellino somalo si è impennato, passando dai 33 mila scellini per 1 dollaro di 6 mesi fa ai 20 mila di oggi. I prezzi degli immobili sono alle stelle a causa delle organizzazioni internazionali tornate a Mogadiscio dopo vent'anni. 

La carestia dello scorso anno ha ucciso migliaia di persone, ma ha anche suscitato nuovo interesse verso il Paese attirando nuovi soggetti economici, come i turchi, arrivati per consegnare aiuti alimentari e oggi impegnati in nuove attività commerciali. Tanto che Turkish Airlines ha inaugurato due collegamenti settimanali tra Istanbul e Mogadiscio. Un problema è rappresentato dalla Transitional Federal Government, autorità riconosciuta a livello internazionale, debole e corrotta. Quando Egal è arrivato, alcuni funzionari della banca centrale gli hanno chiesto di pagare una "tassa di registrazione" di 100 mila dollari. Lui ha rifiutato e quelli se ne sono andati. Interrogato sull'episodio, un portavoce governativo, ha detto: "Non è vero. La corruzione appartiene al passato".

L'ARTISTA
Abdullah Abdirahman Abdullah Alif riceve ancora minacce di morte per i suoi fumetti satirici. Ogni settimana esplode una bomba. "Almeno ho un lavoro", minimizza. "Siamo in una fase di transizione" aggiunge, mostrando una tela lunga 3 metri. Al centro del quadro è riprodotta l'immagine di un adolescente il cui corpo è per metà uno scheletro. Il ragazzo ha in una mano una colomba, nell'altra un fucile. Dietro di lui due futuri diversi: da un lato campi verdi, frutti e graziosi edifici, dall'altro fiamme, fuoco, tombe e avvoltoi.

"I ragazzi sono la spina dorsale della società. Ciò che vogliamo è che guardando quest'immagine capiscano che si sceglie: morte e distruzione o pace". Alif, 40 anni, fa parte di un gruppo di artisti appena emersi da anni di clandestinità cui un'associazione no profit ha commissionato, per il rispettabile compenso di 400 dollari al mese, un'enorme dipinto che promuova la pace. Il lavoro sarà esposto agli angoli delle strade più frequentate, equivalente di uno spot a fini sociali in una realtà in un cui la televisione non è diffusa. 

Negli anni scorsi sulla testa di Alif c'è stata una taglia per aver realizzato opere giudicate non islamiche. Vandali hanno distrutto l'armadio in cui conservava le sue opere: "26 mila disegni perduti", dice. Ma il suo ardore è rinato grazie al revival artistico della città. Qualche giorno fa un gruppo di musicisti si è perfino riunito per una jam session; musica alta e ragazzine che si muovevano a ritmo fumando sigarette e masticavano qat. Quando la città era in mano agli al-Shabab, una cosa del genere avrebbe scatenato una strage.

LA DONNA POLIZIOTTO
I progressi compiuti a Mogadiscio si basano su qualcosa di fondamentale: la sicurezza. E a garantirla ci sono persone come Khadija Hajji Diriye, una donna di 35 anni dal fisico massiccio. Lavora nella stazione di polizia di Waberi armata di un AK-47. "Un giorno gli Shabab erano dall'altra parte della strada e ho cominciato a sparare " racconta. Spiega che viene trattata come i colleghi maschi, tranne che non può portare la pistola perché qualcuno potrebbe aggredirla e rubargliela. 

Nel posto di polizia in cui lavora donne col velo e uomini con il copricapo tradizionale, fanno le loro denunce: violenza domestica, ferite da taglio, litigi contrattuali, piccoli furti. I poliziotti scrivono i loro rapporti con una vecchia macchina da scrivere e di tanto in tanto fanno un arresto. Abdi Ismail Samatar, docente di geografia, di nazionalità somalo-americana, dice che la svolta di Mogadiscio è qui. "Tutto dipende dalle istituzioni. Il settore privato arriva solo fino a un certo punto" spiega.

"Ora dipende da quelli che stanno in cima alla collina". Intende Villa Somalia, il palazzo presidenziale, situato su un colle: dove però due persone si contendono la presidenza del parlamento, paralizzando il processo legislativo, mentre un ex funzionario governativo, qualche tempo fa, ha rivelato che mancano all'appello milioni di dollari. Non c'è da sorprendersi se i dipendenti del governo più importanti (vale a dire le forze di sicurezza) non ricevano lo stipendio. Diriye dovrebbe guadagnare 100 dollari Amneeyat, la polizia segreta degli Shabab, praticamente un commando omicida.

"Ci dividevano in squadre" spiega. "Il comandante ci dava l'obbiettivo, noi lo studiavamo e preparavamo un piano. Infine uccidevamo". Non tradisce emozione, non è né spavaldo né pentito. Dice che la sua arma preferita era una calibro 30 e di aver partecipato a oltre 50 omicidi. È entrato a far parte della milizia a vent'anni. In una Somalia dall'economia in rovina, le milizie erano le uniche occasioni di lavoro. Alla fine si era stancato di uccidere, dice, ma il colpo finale è stato quando lo hanno incaricato di assassinare suo cugino, un miliziano progovernativo. 

Voleva disertare, ma ha dovuto chiedere il permesso al padre per tornare a casa. Da allora, Abdul si guarda le spalle per timore dei suoi ex colleghi. Come molti ex miliziani, è disorientato. "Vorrei un lavoro normale ", dice. Tipo cosa? Ci pensa un attimo e risponde "Mi piacerebbe fare l'autista". (Traduzione di Antonella Cesarini) © New York Times al mese, ma accade di rado. Le sue condizioni di vita sono terribili. Il marito è stato ucciso e lei, insieme a 5 figli, occupa abusivamente una casa diroccata vicino al mare. Dal tetto piove, il suo materasso è lacero, non c'è bagno né elettricità. Si dedica al lavoro per patriottismo. "La caduta del governo del 1991 fu il momento peggiore della mia vita" dice. "Come posso andarmene ora che un nuovo governo sta per arrivare?".

IL SICARIO
Un tempo Abdul Kader dava la caccia a poliziotti, funzionari di governo, intellettuali e a qualche capo religioso. Non si direbbe un sicario, ha le guance paffute e una barbetta che stenta a crescere. Ma ha fatto parte di Amneeyat, la polizia segreta degli Shabab, praticamente un commando omicida. "Ci dividevano in squadre" spiega. "Il comandante ci dava l'obbiettivo, noi lo studiavamo e preparavamo un piano. Infine uccidevamo". 

Non tradisce emozione, non è né spavaldo né pentito. Dice che la sua arma preferita era una calibro 30 e di aver partecipato a oltre 50 omicidi. È entrato a far parte della milizia a vent'anni. In una Somalia dall'economia in rovina, le milizie erano le uniche occasioni di lavoro. Alla fine si era stancato di uccidere, dice, ma il colpo finale è stato quando lo hanno incaricato di assassinare suo cugino, un miliziano progovernativo. Voleva disertare, ma ha dovuto chiedere il permesso al padre per tornare a casa. Da allora, Abdul si guarda le spalle per timore dei suoi ex colleghi. Come molti ex miliziani, è disorientato. "Vorrei un lavoro normale ", dice. Tipo cosa? Ci pensa un attimo e risponde "Mi piacerebbe fare l'autista". 

Fonte di notizie sotto:


QUA

cammelli stupefacenti

Cammelli in Caluula, Somalia, sono noti per le loro capacità natatorie.

Sindaco Riace (Rc), Domenico Lucano in sciopero fame per diritti rifugiati


Riace, (Rc) 17 luglio 2012Domenico Lucano, sindaco di Riace, da oggi e' in sciopero della fame per chiedere il rispetto dei diritti dei rifugiati. Il primo cittadino del paesino nella Locride denuncia la mancanza da piu' di un anno dei contributi da parte della Protezione Civile per l'assistenza del rifiugiati nel comune. Con una nota la Protezione civile precisa pero' le cause all'origine dell'"incresciosa vicenda", che "non sono in alcun modo legate alla erroneamente denunciata mancanza di risorse" ma "la sostanziale paralisi delle liquidazioni delle spese sostenute per l'assistenza e' dovuta alla mancata registrazione, da parte della competente Sezione regionale di controllo di Catanzaro della Corte dei Conti, delle convenzioni stipulate dal Soggetto Attuatore della Regione Calabria, direttore regionale di protezione civile con gli enti gestori prima del 29 luglio 2011".

"Questa, infatti - si legge nel comunicato -, e' la data della decisione della Corte dei Conti con cui, mutando il precedente orientamento, ha disposto di porre al visto preventivo, previsto dalla legge 10 del 2011, non solo gli atti del Commissario delegato, ma anche quelli dei Soggetti Attuatori.
A quanto risulta alla struttura del Commissario delegato - si legge ancora nella nota della Protezione civile -, la decisione della Corte dei Conti di Catanzaro di non ammettere al visto i pagamenti conseguenti a convenzioni stipulate prima del 29 luglio 2011 non trova riscontro nelle restanti Sezioni del Paese.Per questo motivo, ferme restando le esclusive competenze della Corte dei Conti, il Commissario delegato ha interessato il presidente della Corte stessa affinche' possa intervenire al fine di uniformare l'orientamento della Sezione di Catanzaro con quella delle altre Sezioni regionali. Il Commissario, poi, pur non entrando nel merito dei rilievi avanzati dalla Corte dei Conti locale nei confronti del Soggetto Attuatore, ha invitato quest'ultimo a intraprendere tutte le iniziative possibili affinche' non venga messa a rischio ne' interrotta l'accoglienza dei rifugiati attualmente ospitati nelle numerose strutture calabresi".

Tuesday, July 17, 2012

Un rifugiato somalo terrorizzato da 4 'agenti'


Un rifiugiato somalo, lo scorso 10 luglio,  è stato fermato da 4 agenti in borghese in Via degli Ausoni a Roma. Gli agenti non si sono identificati e il ragazzo, temendo che fossero dei truffatori che tentavano di derubarlo (cosa che gli era già successa in Sicilia), ha cominciato a gridare aiuto. Immediatamente sono accorsi gli abitanti di San Lorenzo, accompagnati da alcuni attivisti presenti all’interno del vicino Cinema Palazzo, in soccorso del ragazzo somalo. Dopo un prolungato tira e molla con chi si era precipitato sul posto, che chiedeva ai quattro di mostrare il tesserino identificativo, gli agenti hanno cercato di caricare di peso il rifugiato in macchina. Il ventiduenne a quel punto ha accusato un malore seguito da una crisi epilettica. Attualmente è stato dimesso dal Policlinico Umberto I e rilasciato dalla polizia perché i suoi documenti erano assolutamente impeccabili. La prognosi è un trama cranico e alcune lievi contusioni. Secondo l’ospedale romano 15 giorni dovrebbero essere sufficienti per la guarigione. Il fatto è già noto dagli scorsi giorni, soprattutto grazie a un video che testimonia l’accaduto, meno nota è forse la cornice in cui inquadrare gli avvenimenti.
Se vedo nero procedo al fermo. Se vedo nero devo controllare. Qualcosa che non va dovrò pur trovarlo, o no?
Purtroppo è questo il meccanismo mentale che scatta sempre più spesso nei meandri della psiche di alcuni tutori dell’ordine, che poi finiscono per creare disordine, raggiungendo un obiettivo del tutto contrario agli scopi di partenza.
Roma, quartiere di San Lorenzo: uno dei luoghi storici della capitale, un crocevia di culture diverse, sin dagli anni della sua nascita, nei primi decenni dello scorso secolo. Allora la borgata era luogo di incontro tra i romani e i migranti abruzzesi, si narra che fosse Sgurgola Marsicana il paese maggiormente rappresentato all’interno della zona. Numerosi anche i migranti provenienti dal Sud Italia. Con gli occhi di oggi, per i più, la situazione non dovrebbe esser considerata problematica. Eppure anche allora erano all’ordine del giorno le tensioni sociali, essendo a confronto dei modi di vivere completamente diversi. L’Italia era un paese giovane e pieno di differenze nel folklore, nelle tradizioni, negli usi, nei costumi.
San Lorenzo però, ha saputo fare delle diversità un punto di partenza, una forza. Il quartiere romano, seppur eterogeneo all’interno, all’esterno si mostrava come un organismo compatto, tanto da resistere all’avanzata dei fascisti sino alla Marcia su Roma. È cosa nota che tutto il popolo della borgata – chi d’estrazione cattolica, chi comunista, chi socialista, chi anarchico – si oppose con vigore all’ingresso dei fascisti all’interno del suo corpo sociale.  Fu l’ultimo quartiere a desistere alle incursioni delle camicie nere, che solo attraverso l’appoggio dell’esercito riuscirono a conquistarlo. Per un approfondimento sul periodo storico consigliamo il libro della prof.ssa Lidia Piccioni San Lorenzo, un quartiere romano durante il fascismoche cerca di vivificare quel periodo storico all’interno del quartiere attraverso le testimonianze di chi l’ha vissuto.
A che scopo questo excursus, vi chiederete voi? Beh, chi frequenta la zona non dovrebbe avere dubbi. Negli ultimi tempi sono cresciute, purtroppo, le frizioni tra gli abitanti italiani di San Lorenzo e gli stranieri. È vero, alcuni tra questi ultimi talvolta danno vita a uno spettacolo poco edificante nella cosiddetta “Piazza Nuova”, con lanci di bottiglie di vetro e faide interne ai loro gruppi, che spesso costringono alla fuga chiunque sia nelle vicinanze. Quello che ci sentiamo di chiedere però, a chi vive in loco, è di non perdere, per colpa di alcuni, l’ospitalità che ha sempre contraddistinto il quartiere. Quell’eterogeneità culturale che è stata il punto di forza di San Lorenzo per molti decenni. Chiedete ai vostri nonni quanto fosse difficile all’inizio vivere con chi veniva da Sgurgola Marsicana o dalla Puglia.
Il fatto del rifugiato somalo, tra l’altro, dimostra come siano ancora molti quelli che sono pronti a scendere in campo per difendere i diritti di un ragazzo fino a quel momento sconosciuto.
Per questo ci sentiamo di rivolgere anche un appello alle forze dell’ordine. Questo controllo è sicuramente degenerato, purtroppo però, non è un caso unico. I ripetuti fermi di polizia verso gli stranieri, non fanno che alimentare il risentimento e la rabbia, rimarcando le diversità, invece di promuovere l’integrazione nel tessuto urbano di chi parla con un accento differente dal nostro.
Ricordatevi, inoltre, che avete la responsabilità di proteggere anche gli stranieri e non di terrorizzarli, come purtroppo è successo in questo caso. Perché la paura è sempre un cattivo deterrente per “tutelare” l’ordine nella città.

Video Qua sotto: